Il successo della donna medico che sa parlare con il paziente:
"Le dottoresse ascoltano i malati, si fanno raccontare i sintomi di ieri e di oggi e si fanno un quadro clinico più completo"
di DANIELA MINERVA

Se vi sentite male, sperate che il dottore sia femmina. Perché ci sono le prove che uomini e donne praticano la medicina in maniera diversa. E ci sono le prove che se vi cura una signora avete più probabilità di guarire e non avere ricadute. Francamente ha dell’incredibile: la medicina scientifica, basata sulle prove e sui protocolli, ci dà fiducia proprio perché si fonda su basi inoppugnabili e non soggette a interpretazioni. Cosa c’entra ora il genere del curante? Sembra una fantasia ben poco scientifica. E invece no. Perché a certificare quanto sono brave le dottoresse arrivano le vicende cliniche di oltre un milione e mezzo di ultrasessantacinquenni esaminate dai ricercatori della Harvard University, e pubblicate su Jama Internal Medicine.
Insomma, il gotha. Che oggi ci dice: badate, non bastano i protocolli, le terapie basate su prove di efficacia, le linee guida rigorose. Serve che i dottori mettano il malato al centro del loro ragionare, che lo stiano ad ascoltare, che comprendano le sue difficoltà e cerchino di risolverle, anche quando non sono strettamente mediche. E in questo le donne sono più brave.
Le donne medico in in Italia: l'infografica
I ricercatori di Harvard hanno scoperto una diminuzione della mortalità del 4% e delle ricadute del 5% su uno spettro amplissimo di patologie: infezioni, aritmie, collassi, polmoniti, insufficienza renale. E lo spiegano proprio col modo tutto femminile di fare medicina. A partire dalle parole: le donne stanno ad ascoltare i malati, stabiliscono un rapporto migliore, si fanno raccontare i sintomi di oggi e di ieri. E finiscono col farsi un quadro clinico più completo. Nessuna magia: ascoltare i malati fornisce più informazioni, e uno schema terapeutico si disegna anche con le informazioni cliniche che solo la persona può raccontare. Il gran parlare che si fa oggi sul potere della parola, sulla cosiddetta medicina narrativa, rischia di complicare, e forse affumicare, un fatto assai semplice: solo io so dirti come sto, come stavo e cosa ho fatto; se metti queste informazioni insieme ai risultati delle analisi e ai diktat dei protocolli terapeutici riesci a curarmi meglio.
Se il medico è una donna, i pazienti vivono di più
La realtà, invece, è fatta di relazioni affrettate, frasi spezzate, spiegazioni abborracciate. Ed è fatta, in Italia, di regole capestro: 12 minuti per una prima visita, in oncologia ad esempio, è la realtà dei nostri ospedali. Lo impongono i direttori generali per calmierare i costi, lo subiscono i medici, ne soffrono i pazienti. Non solo. Il lavoro di Harvard indica che al successo delle dottoresse contribuisce la capacità di coniugare la medicina con l’attenzione alle condizioni di vita dei loro assistiti. Di guardare fuori dall’ospedale, là dove le persone vivono e dove avrà necessariamente luogo la gran parte dei gesti e dei comportamenti che determineranno se guariscono o no. Se una persona vive sola, se abita in una zona isolata o in città, se mangia decentemente, se ha accesso a terapie di supporto (dal fisioterapista al sessuologo): l’esito dello schema terapeutico che gli verrà prescritto dipende largamente da tutto ciò. Anche queste sono informazioni necessarie per decidere che cura prescrivere, e per costruire un percorso che porti alla guarigione. Le donne ci stanno più attente. Difficile dire perché, ci obbligherebbe a scomodare la storia evolutiva del cervello femminile, l’evoluzione della socialità, della maternità, della ricerca del cibo. Ma quel che preme, oggi, è la lezione del grande studio pubblicato su Jama: 12 minuti non bastano, e l’ospedale è solo uno dei tanti teatri dove si decide la sorte di un malato. Le donne sono in pole position, ma è la medicina che deve cambiare.
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